Dalla morte di George Floyd la conversazione sul tema dell’inclusività è tornata in primo piano, anche nel settore moda. Abbiamo chiesto alle giovani donne afroitaliane cosa ne pensano
di Federica Salto (da IODonna del 3 luglio 2020)
Nelle settimane che sono seguite all’uccisione di George Floyd proteste e riflessioni si sono susseguite a vari livelli. Anche la moda fa i conti: ai brand e ai media si chiede una maggiore inclusione, e un progetto anti-razzista a lungo termine. La Camera Nazionale della Moda Italiana ha pubblicato il suo manifesto nel 2019, ma non esistono dati per inquadrare lo stato dell’inclusività nel settore italiano.
Su una cosa ci si può trovare facilmente d’accordo: includere significa soprattutto comprendere, dare voce e spazio. Abbiamo chiesto quindi alle ragazze afroitaliane che lavorano nella moda – chi con la sua linea di abbigliamento, chi in qualità di content creator, chi come rappresentante della comunità – di raccontare la propria storia. E provare a immaginare una moda più inclusiva.
Abiti e comunità: il progetto di Aida Aicha Bodian
Aida Aicha Bodian è afroitaliana, recentemente si è trasferita in Francia dove lavora per una casa di moda e in parallelo lavora al suo progetto personale: NebuaWorld è una community dedicata al mondo femminile afro-black, ma anche un brand sostenibile.
Come è nata la tua passione per la moda?
Credo di averla sempre avuta! Vengo da una famiglia abituata a usare la moda come strumento per comunicare la propria identità e appartenenza a una comunità e classe sociale. Fin da piccola vedevo, oltre ai classici abiti occidentali, anche modelli senegalesi e non solo: tagli diversi, colori sgargianti e accessori particolari. Quindi, inconsapevolmente, venivo contaminata da un universo fatto di tessuti e fantasie originali. Da piccola indossavo gli abiti tradizionali senegalesi alle feste, ai battesimi, ai matrimoni. Ci pensava mia madre o qualche zia a scegliere i modelli. Era l’elogio dei colori, dell’allegria, dell’eleganza, della vita per gli altri. Verso il periodo della mia adolescenza portare questi abiti è diventato più difficile, perché non mi ci riconoscevo. Crescendo ho iniziato a incuriosirmi della vita dei sarti, del loro lavoro e puntualmente chiedevo loro qualche modifica in più sulla realizzazione vestiti da indossare, tanto da ricevere l’appellativo della ragazza “complicata”, perché rifiutavo di accettare standard di confezionamento un po’ “antiquati”. Almeno per il mio stile. Passato il periodo dell’adolescenza, e con una consapevolezza maggiore della mia identità, è ritornata anche la passione verso quei tessuti. Adoravo i colori del wax, l’eleganza del bazin, il regale e maestoso tchoub. Durante le cerimonie vedevo nelle altre donne, ma anche negli uomini, il desiderio di indossare l’ultimo prodotto alla moda, l’abito più bello, l’accessorio più fashion. E questo sentimento nasceva piano piano anche in me, ma in modo diverso. Mi ricordo i giorni successivi le feste, dove chiacchieravo con le mie sorelle, riflettendo sulla rivisitazione di un modello visto. Due di loro avevano studiato moda – modellistica – e avevo iniziato a riflettere su un progetto imprenditoriale, che però non ha preso piede.
Ed è da quel momento che hai deciso di dedicartici?
Dieci anni dopo ho deciso di seguire un corso di cucito serale, in un istituto di moda in Emilia Romagna. Per motivi di tempo però non ho proseguito, anche se la passione per quei tessuti restava. Dopo 25 anni trascorsi in Italia, nel 2018 mi sono trasferita in Francia e questo fatto ha segnato una svolta nella mia carriera professionale. Lavoro per una maison italiana di moda e lusso che mi ha insegnato ad apprezzare anche quel mondo: studiare la storia dietro un prodotto unico, innamorarmi del talento degli artigiani italiani e del loro savoir faire tanto invidiato nel mondo. In una città cosmopolita come Parigi, ho deciso finalmente di lanciarmi anche come freelance e dare vita alle mie passioni: la comunicazione e la moda ecosostenibile.
Nel tuo progetto parole e abiti hanno una linea comune, puoi spiegarcela?
Ho tante passioni che cerco di concretizzare in progetti reali. Il filo conduttore che lega le mie idee è la valorizzazione della diversità e il desiderio di creare nuove narrazioni, mostrando modelli positivi di bellezza, esteriore ma anche interiore. Ho imparato a fare della diversità, non più come un qualcosa di negativo, ma un punto di forza e la base per lo sviluppo dei miei progetti, sia personali ma anche professionali. Sono sempre stata una persona abituata a vedere il bello, il lato positivo delle cose e delle situazioni, un po’ per educazione, un po’ per spirito mio. Anche nel mio nuovo libro “Le parole dell’umanità” (edito da People Italia) ho cercato di mettere in risalto questa cosa. Per me sono importanti le parole, l’arte dello storytelling e la promozione di nuove forme di comunicazione pure.
Nebua World una community che si focalizza sul mondo femminile afro-black, e che cerca di fornire, da una parte, strumenti utili per la sua crescita personale, motivazionale e professionale, dall’altra parte di fornire indirettamente strumenti per rapportarsi in modo più autentico con le donne afro-black.
Ma è anche un progetto eco-friendly che attraverso la moda esprime la bellezza che nasce dal confondere stili e origini diverse, cerca di smontare stereotipi e promuovere messaggi positivi di accettazione. La collezione “Zero” di Nebua è stata realizzata con il Wax: mi sono concentrata sul classico tessuto afro-non afro (la discussione d’appartenenza è ancora lunga) scegliendo tre fantasie principali, blu, verde, rosso/arancione. Sono un’amante dei colori e penso che questi ultimi tre dovrebbero essere presenti nella nostra vita quotidiana: il rosso-arancione per darci la giusta energia, il verde colore della speranza e il blu, colore della fiducia, calma. La prima collezione presentata all’Afro Fashion Week di Milano 2019 è basata su due capi, abito e gonna, nelle versioni lunghe e corte: il modello AlineNebua ispirato ad una grande donna senegalese e il modello SabaNebua. Aline Sitoé Diatta, la regina del Casamance: fu la prima donna senegalese a pronunciarsi apertamente per l’uguaglianza di tutti gli uomini e le donne, indipendentemente da razza, età, religione e opinioni professate. L’obiettivo è quello di creare qualcosa che unisca Africa e Europa, sia nella scelta dei prodotti, che nella loro visione e identità. Oltre alle creazioni in Wax ho presentato anche la linea di t-shirt MelaninNappy, realizzate in cotone 100% biologico. Lettere, frasi, grafiche per divulgare un senso d’identità, d’accettazione che parte dal colore della pelle, dalla tipologia dei capelli per esprimere un concetto più complesso e di grande attualità.
Quali passi può fare la moda italiana per essere più inclusiva?
Credo molto nel potere delle contaminazioni: l’evoluzione delle nuove società va veloce verso una realtà più inclusiva, che interagisce con figure sempre più diverse, anche se nei fatti si fa fatica a riconoscerlo. E’ un processo naturale. Abbiamo visto nei giorni passati come l’avere una tonalità di colore un po’ più scura possa rappresentare un problema in diversi contesti, anche nel mondo della moda purtroppo. Ne sanno qualcosa, sicuramente in più, stiliste come Stella Jean, influencer come Tamu McPherson e Louis Pisano, Jordan Anderson, che con le loro voci segnalano fatti, riportando l’attenzione a questa realtà. Negli ultimi mesi abbiamo visto un crescente interesse dell’industria della moda nei confronti degli artisti e dei creativi africani in generale. Se da una parte è un segnale minimo di cambiamento dall’altra bisogna vedere in che termini viene sviluppato. Penso che, come in ogni cosa, c’è bisogno di trovare un equilibro. Quando si vogliono creare nuove collaborazioni, nuove interazioni bisogna prestare ascolto, all’ecosistema con cui ci si affaccia, fatto di persone, costumi, senza pretendere di imporre nulla. Spesso ci si identifica come portatori della creatività e del talento puro, è capitato anche a me di fare quel ragionamento, ma in realtà l’Africa è un continente enorme, che non smette mai di stupire, e una volta messo piede nelle sue capitali, si scopre che è culla di una continua e sempre più veloce innovazione.
Faisa, immagine e aspirazionalità
Faisa è somalo-italiana, indossa l’hijab ed è una content creator.
Quali/chi sono le tue fonti di ispirazione?
Una delle mie fonti principali da anni è sicuramente Instagram. Seguo blogger e modelle che indossano il hijab o il turbante per prendere ispirazione sui diversi stili e le ultime tendenze. Una di loro è Rawdah. Inoltre sono molto appassionata di moda, quindi leggo riviste di moda sia online che cartacee.
Quali sono i tuoi marchi preferiti?
Al momento: Tommy Hilfiger, Max Mara e Fendi.
Ti senti rappresentata dalla moda italiana?
Sono una ragazza nera che indossa il hijab, quindi direi di no. Negli ultimi anni, l’industria della moda ha fatto passi in avanti verso l’inclusione. Un esempio sono le modelle: Halima Aden e Ugbad che hanno sfilato nelle FW per marchi importanti e sono entrambe nere, musulmane e indossano il hijab. In Italia c’è ancora molta strada da fare, soprattutto per quanto riguarda l’inclusione di talenti neri e POC italiani.LEGGI ANCHE› La scelta del velo: l’intervista a Halima Aden e Taleedah Tamer
Che cosa vorresti che facessero i marchi di moda per essere più inclusivi?
Mi piacerebbe vedere una reale rappresentazione della diversità che c’è in Italia nelle sfilate (per quanto riguarda le modelle) e agli eventi dei brand (influencer e creators). Inoltre i marchi di moda potrebbero iniziare a collaborare regolarmente e offrire opportunità lavorative ai numerosi talenti neri e poc italiani.LEGGI ANCHE› La moda diventa inclusiva: i nomi delle nuove, “diverse” modelle di successo
Michelle Ngonmo, founder di AfroFashion
Michelle Francine Ngonmo è nata in Camerun. Ha studiato Comunicazione Audiovisiva e Lingue a Ferrara ed è la fondatrice di AfroFashion, associazione che annualmente dà vita alla Afro Fashion Week Milan.
Quando e come è nata l’idea di Afro Fashion?
All’università ero molto attiva nell’organizzazione degli eventi ed ero la presidente degli studenti africani, quindi ho avuto la fortuna di confrontarmi con tantissime realtà. Sentivo anche il bisogno di nuovi punti di riferimento: i media tradizionali non raccontavano la realtà che conoscevo io o che vivevo io… Quando parlano di Africa raccontano esclusivamente di safari, fame, malattia, guerre. Dopo tanti anni di progettazione, nel 2015 è nata la nostra associazione senza scopo di lucro che ha l’intento di promuovere la cultura afro raccontando una realtà molto spesso ignorata dai media e di conseguenza dalla società.
In cosa consiste il progetto?
L’associazione Afro fashion abbraccia tanti settori: food, fashion e design. Siamo una piattaforma creata per dare opportunità ai designers afro (emergenti e non) di accedere a nuovi mercati, acquisire esperienze e notorietà a livello internazionale partendo dal fulcro della moda in Italia: Milano. L’associazione accende i riflettori sulla creatività scaturita dalla diversità culturale. Condivisione, formazione, riflessione costituiscono il concept delle nostre iniziative evidenziando i segni dei nostri tempi e tutto ciò che emerge dall’attuale situazione geopolitica e dalla società sempre più multi-culturale nella quale viviamo. L’empowerment e la rappresentanza sono lo spirito dietro alle nostre iniziative, e attraverso i nostri eventi modelle, designer e imprenditori si sentono valorizzati, presi in considerazione. Dal 2018, abbiamo una sede anche in Camerun con un approccio basato sulla formazione e la capacity building locale con un focus sulle donne.
Esiste qualche collegamento con la Camera della Moda?
Non abbiamo nessun collegamento con la Camera della Moda. Agli inizi abbiamo provato a contattarli, senza nessun riscontro; e quindi abbiamo proseguito il nostro percorso, se un domani saranno interessati alla nostra realtà o a qualsiasi forma di collaborazione, noi ci siamo.
Qual è secondo il tuo punto di vista il grado di inclusione del settore moda oggi in Italia e quali gli step necessari per migliorare?
L’inclusione in generale in Italia ha ancora tanta strada da fare e il settore moda è particolarmente chiuso su se stesso. Mi piace pensare che gli anni futuri saranno migliori soprattutto per le persone di provenienza diverse. Non mi riferisco solo alle persone nere. Gli step da fare sono tanti però si potrebbe partire intanto da meno superficialità; finché l’inclusione verrà vissuta più come una tendenza che come una problematica da affrontare, sussisterà il problema. Cosi come la società deve prendere in considerazione il fatto di essere multiculturale, lo stesso deve farlo il mondo della moda. Più persone di origine straniere nell’organigramma delle aziende, durante le sfilate, nelle campagne pubblicitarie, ai vertici seduti al tavolo di chi decide. I veri attori, le persone di origini straniere, devono essere coinvolti in prima persona. Il considerare ad esempio la moda “AFRO” come esotica o come un trend di stagione non deve più esistere. E non dovrebbe più fare clamore la ragazza nera in prima pagina su Vogue. L’Italia è cosi piena di bellezza e di talenti diversificati, trovo che si a davvero un peccato non sfruttare questa sua realtà.
Winta Beyene, diversità tra gli influencer
Quali sono le tue fonti di ispirazione?
Principalmente le persone che incontro in giro nel mondo; credo che ognuno di noi abbia qualcosa e quindi talvolta ne faccio ispirazione. Sicuramente una mia grandissima fonte di ispirazione è stata mia mamma! Mentre, se ti dovessi dire un icona di oggi è Zoë Kravitz.
Quali sono i tuoi marchi preferiti?
Sono da sempre una grande amante del minimalismo. Senza dubbio i marchi in cui mi ritrovo di più sono proprio quelli in cui negli anni ’90, hanno spopolato proponendo questo stile, come Prada, Maison Margiela e Jil Sander.
Che cosa vorresti che facessero i marchi di moda per essere più inclusivi?
In Italia dal punto di vista dell’inclusività nel settore moda, siamo tutt’ora molto indietro. Questo è un argomento che si estende dalle passerelle al cosiddetto mondo degli “influencer”. Vorrei che i brand iniziassero a includere più volti perché come dico sempre non esiste DIVERSITÀ e questo è proprio il bello del mondo! Ognuno ha una propria caratteristica. Mentre nelle passerelle, negli ultimi anni vediamo un inclusività maggiore (con ancora qualche pregiudizio) mi piacerebbe che i brand, iniziassero a egual modo a collaborare con gente nera, asiatica ecc.. al fine di avere tutti le stesse possibilità!.Bisogna aprire il cuore e la mente.