di Federico Sanguineti
Senza dover risalire alla pur imprescindibile Storia delle storie letterarie (1969) di Giovanni Getto, la questione storiografica di fondo, che rimane alla base di ogni altra considerazione critica, è evidenziata da Anna Santoro all’interno di un contributo del 1984 dedicato a “un’analisi dello stato socioeconomico delle scrittrici italiane”, dove si osserva che ‒ se non altro fino al Settecento (cioè prima della Rivoluzione francese) ‒ non esistono, per le classi dominanti, preclusioni sociali e politiche nei confronti delle letterate.
A pochi anni di distanza dalla nascita dell’Accademia dell’Arcadia (1690), Giovanni Mario Crescimbeni (che ne fu cofondatore insieme a Gian Vincenzo Gravina), nella Istoria della volgar poesia del 1698 si sofferma infatti su un numero incredibile di poetesse, quasi tutte poi emarginate dall’intellighenzia borghese (che vuole le donne oggetto e non soggetto di cultura). Ecco qualche nome delle scrittrici prese in considerazione da Crescimbeni (il cui libro oggi è a chiunque accessibile online su Google Libri): Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Margherita di Valois, Costanza d’Avalo, Chiara Matraini, Dianora Sanseverina, Fiammetta Soderini Malespina, Anna Maria Ardoini Lodovisi, Aurora Sanseverina Gaetani, Gaetana Passarini, Giovanna Caraccioli, Maria Selvaggia Borghini, Petronilla Paolini Massimi, Prudenza Gabrielli Capizucchi.
Di queste, solo Vittoria Colonna è ricordata nella Storia della letteratura italiana (1870) di Francesco De Sanctis, nel capitolo dodicesimo, in un contesto rapidamente finalizzato a denigrare il petrarchismo: “La posterità ha dimenticato i petrarchisti, e appena è se fra i tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da Pietro Bembo”.
Se il canone è quello offerto nelle scuole e nelle università dalla storiografia borghese, come dar torto alla scrittrice Alicia Giménez-Bartlett, quando, in pagine intitolate La maledición de los clasicos (2020), afferma, tanto per cominciare, di odiare i classici?
Censurata la memoria di quante storicamente hanno avuto un ruolo attivo, la misoginia di De Sanctis emerge nel giudizio riservato all’Arcadia, il cui “centro” è individuato nella regina Cristina di Svezia, “povera donna” che, “non comprendendo i grandi avvenimenti”, si permette di promuovere il sapere: “si sentiva tanto felice tra quegli arcadi, ch’ella proteggeva, e che con dolce ricambio chiamavano lei immortale e divina”.
Chiosa finalmente Joyce Lussu in Padre padrone padreterno (1976): “Nell’assetto feudale, la donna della classe dominante ha in mano larghe fette di potere economico e politico”, per cui può elevarsi “al selezionatissimo olimpo dell’alta cultura”, mentre il modo di produzione capitalistico segna al contrario “un regresso della posizione della donna, sia nella classe dominante che nel popolo”.
Ed ecco che, nel mondo di oggi ‒ secondo i dati offerti dalla presidente del Gender group istituito dalla Caritas nel 1999, Anne Dickinson ‒, le retribuzioni femminili non raggiungono in media il 75% di quelle maschili; le lavoratrici svolgono il 70% del lavoro salariato e producono i due terzi della ricchezza mondiale, ma ricevono appena un decimo degli introiti disponibili e del reddito complessivo; e, globalmente, le donne detengono meno dell’1% della proprietà privata del pianeta, costituendo ogni giorno di più, nel cosiddetto “capitale umano”, la stragrande maggioranza dei poveri fra i poveri.